In questo preziosissimo saggio di Italo Clavino, pubblicato su Repubblica 32 anni fa, e recentemente riproposto dalla blogger Cri sulle sue pagine virtuali, ci si rende conto di come il nostro Paese in fondo non sia mai cambiato e che le cellule cancerose del sistema si siano in realtà infiltrate ancora di più nel tessuto sociale.
Se vi guardaste intorno infatti non trovereste pubbliche amministrazioni funzionanti e ligie al proprio dovere (salvo rare eccezioni) ma organismi di potere che tentano di sopraffare il prossimo.
Spazziamo via insieme questo mal costume. Salviamo l’Italia e i nostri figli. Evolviamo!
Andrea Gollinucci
Apologo
sull’onestà nel paese dei corrotti
di Italo Calvino
di Italo Calvino
C’era un
paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il
sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di
condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di
potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché
quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire
la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè
chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar
soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante
favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in
qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.
Nel
finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun
senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto ell’interesse
del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il
proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una
superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a
favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di
singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di
procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del
gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella
morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente
individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio
tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza
ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.
Il paese
aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato
dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro
che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel
paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a
rimetterci di suo ( e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto retendere
che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente
in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene
comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in
altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui
ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza ( così come in certe
località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni
gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare
guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la
sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione
della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente
esentate da ogni imposta.
Di tanto in
tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le
leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti
di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi
impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per
la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento
di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere. Cosicché era
difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi
tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure
se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero
accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi
illeciti come tutti gli altri.
Naturalmente
una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi
sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche ( e tante altre attività più
modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento
d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso
percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme
inaspettate di finanza lecita o illecita.
In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del
terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione
fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra
tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica
alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello
di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la
convinzione d’essere il migliore
sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.
Così tutte
le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in
un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale
moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il
vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque
dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una
pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo
attribuire: gli onesti.
Erano
costoro onesti non per qualche speciale ragione ( non potevano richiamarsi a
grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più
corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic
nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che
stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro
testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno
col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione
d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza
a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni
momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri,
indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente
l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza
interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli
altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse
magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano
perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano
rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come
in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una
controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una
controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società ,
ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il
proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva
dato di sé ( almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale,
così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora
per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere
la propria diversità , di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo
magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per
essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che
non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.
Articolo uscito su la Repubblica, 15 marzo 1980, col titolo “Apologo
sull’onestà nel paese dei corrotti".
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